C’è un debito che grava su Borgo Rancia più
pesantemente di quello più volte denunciato: è il debito sociale, quello che si
paga con la dignità, giorno dopo giorno, vivendo in un’idea di periferia
partorita da una politica che ha confuso l’inclusione con l’esilio. E non è
un’esagerazione.
Per chi ha la memoria corta, ricordiamo la cerimonia di consegna degli alloggi: una sfilata da Milano Due de’ noantri, tra nastri tagliati e sorrisi da cartolina, mentre sotto la vernice fresca già si intravedevano le crepe dell’idea. Era l’utopia dell’integrazione, così ci dissero. E invece si è rivelato un laboratorio sociale senza regole, dove la coabitazione è diventata scontro e la convivenza un’equazione impossibile.
Etnie diverse tra loro, famiglie fragili, storie complesse: tutto stipato in uno scatolone condominiale che puzzava di fallimento ancor prima che fosse abitato. Altro che progetto. Un deposito umano, più che un condominio.
Nel frattempo, mentre si pontificava su modelli
d’avanguardia mutuati da imprenditori del Nord, la realtà marciva.
Letteralmente. Pantegane nei cortili, locali tecnici trasformati in discariche
personali, spazi comuni ridotti a magazzini abusivi. Il giardino interno,
simbolo dell’armonia promessa, oggi è una savana urbana dove la socialità si
pratica solo in forma di diffidenze. Ma almeno, dicono i soliti, fuori ci sono
i bidoni della differenziata. Il progresso.
Eppure, lo scandalo vero non sta nelle pantegane, ma nel meccanismo che ha generato tutto questo: acquisizioni a peso d’oro e progetti spacciati per bene comune. Suona familiare? Come quelle telefonate infami dopo il terremoto dell’Aquila, quando si rideva della tragedia altrui mentre si contavano i soldi. Ecco, qui si ride meno, ma il copione è lo stesso: qualcuno ha incassato, qualcun altro continua a pagare. Sempre i soliti. Noi. Ed i nostri figli.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti, ma la responsabilità è diventata fumo. Niente nomi, niente cognomi. Tutti sanno, nessuno ricorda. La politica? Troppo impegnata a promettere altri esperimenti sociali. Gli amministratori? In silenzio o impegnati a difendere l’indifendibile. Intanto, Borgo Rancia resta lì, monumento al fallimento annunciato. Una periferia che non ha mai avuto il diritto di sentirsi centro. Di nulla.
Forse è il momento di smettere di chiamarla “emergenza”. Perché qui, a Borgo Rancia, così come in zona Campus, l’unica emergenza è la memoria. E la coscienza.
Paolo Dignani - coordinatore Civico22

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